NON SO SE avete avuto la stessa reazione mia in queste settimane difficili, dove il mondo è sottosopra e non riusciamo a vedere se e quando torneremo alla realtà che conosciamo. Io sono corsa in cucina e ci sono, in qualche modo, rimasta. Ho cotto, tagliato, frullato, essiccato e infornato. Ma, più di tutto, ho fatto pane. Tanto pane. Di tutti i tipi, o meglio, tipi di farine. Semintegrali, tradizionali, di farro monococco, di tipo 1 e 2. Queste ultime, mi hanno detto, sono le migliori per fare pane e panini. Ho fatto una lunga lezione, tempo fa, per imparare a fare il pane, mi è piaciuta moltissimo e mi sono divertita. Ho anche scoperto un libro, di cui ho parlato ad agosto 2018 proprio in questo blog. Mi riferisco al mastodontico e splendido On Food and Cooking: The Science and Lore of the Kitchen di Harold McGee. Questo per dire che la teoria in qualche modo l’avevo affrontata, ma poi non avevo mai fatto pratica. Ci sono i forni con i fornai che sono bravissimi a preparare pani squisiti per ogni tipo di occasione o dieta. E l’arte bianca richiede tempo e una dedizione che non sapevo di avere.
Poi è arrivato il Covid-19. E so che in tanti abbiamo cominciato a fare il pane in casa. Molti dicono che è per non uscire. Il pane è buono fresco e i forni sono chiusi. Almeno la maggior parte di quelli che frequento di solito lo è. Quindi la scelta di farselo in casa. Ma io non credo sia questa la vera motivazione. Credo che il pane sia un salvagente, una certezza in settimane incerte. Un talismano per attraversare il tempo, specie quando, come questo, è pieno di stravolgimenti. Ce lo raccontano i libri di storia, i dipinti dei grandi artisti: il pane è quotidiano. Il pane è di tutti, spesso lo si ignora per mesi o anche anni, ma torna prepotente alla sua essenza universale nei momenti che ci mettono alla prova. Quando è in cerca di rassicurazioni, l’essere umano sembra trovare conforto nel pane fatto in casa. Penso agli ebrei che si preparano per lasciare l’Egitto dopo quattrocento anni di schiavitù. Che fanno la sera prima dell’Esodo, con gli zaini già pronti per andarsene? Fanno il pane. Azzimo, certo, il tempo per farlo lievitare non c’era, ma lo fanno.
E che divide Gesù con gli apostoli nell’ultima cena prima del martirio? Il pane.
Cosa si scambiano i parenti del giovane assassinato e fra Cristoforo (assassino del giovane) nei Promessi sposi? Il pane del perdono.
La lista potrebbe continuare, ma credo che sul valore universale e trasversale del pane si possa essere tutti d’accordo. Magari l’idea che sia un salvacondotto dall’ansia esistenziale è solo mia e troppo circostanziata per essere di tutti, ma come mi spiegate il fatto che gli scaffali del supermercato dove stanno i lieviti e le farine da quando c’è la pandemia sono sempre i più vuoti?