una cuoca pericolosa

Cibo e idee per tempi da lupi (e non solo)


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Jessica Li Pizzi, un tornado in cucina

Chef Jessica Li Pizzi

La prima parola che mi viene da scrivere pensando a Jessica Li Pizzi, cuoca d’Italia come la trasmissione televisiva che l’ha resa celebre, è “finalmente”. Finalmente un’autentica brezza, anzi, un tornado di freschezza in cucina. Una giovanissima interprete di tradizione e innovazione di ricette e piatti stellati che sa regalare momenti di vero entusiasmo fra i fornelli, perché la prima a provarlo è lei.

Nemmeno 30 anni, originaria della Valdelsa Fiorentina, per la precisione di Certaldo, paese che per una coincidenza fortunata ha la cipolla come simbolo araldico, Jessica Li Pizzi è arrivata in finale come rappresentante della Toscana nella trasmissione “Cuochi d’Italia – All Stars” su Tv8 riservata ai vincitori delle precedenti edizioni del contest culinario e ai concorrenti che si erano particolarmente fatti apprezzare dal pubblico. Jessica la sua edizione l’aveva vinta e in questa ha sbaragliato tutti i concorrenti, ma alla fine ha dovuto cedere il passo alla rappresentante dell’Umbria, Rosita Merli, che lei stessa ha definito “un monumento della cucina”.

Chef Li Pizzi mostra la cipolla simbolo del suo paese, Certaldo

Ho fatto due chiacchiere con Jessica molto prima della finale di “Cuochi d’Italia – All stars” e mi ha sorpreso la chiarezza di idee di questa donna così giovane che sa già perfettamente a che punto è della sua vita e dove sta andando. Come quando racconta che non tornerà a lavorare in cucina (almeno per ora!) perché fare il capo brigata è troppo stressante. Quando le ho chiesto se fare di nuovo il sous chef era un’ipotesi plausibile, mi ha risposto “Non so. Non c’è uno chef, un ristorante in particolare dove vorrei andare. Magari mi piacerebbe lavorare nei ristoranti dove ho mangiato bene e imparare a cucinare quello che ho amato mangiare. Io sono un’autodidatta e spostandomi di ristorante in ristorante ho fatto la gavetta e imparato tutto quello che potevo imparare. Poi cambiavo, per imparare ancora. Un ristorante dove oggi mi piacerebbe lavorare? La sosta del Papa (a Barberino Val d’Elsa) o l’ Osteria 1126 a Cinciano (Siena). Sono stata a mangiare il pesce da Romano in Versilia. Un’esperienza superiore. Ti ritrovi a chiederti ’ma fino a oggi, cosa ho mangiato?’. Un’attenzione assoluta per la materia prima, il dettaglio. Per fare un’esperienza di alta cucina, vorrei provare lì”.

Il dominio della cucina negli show televisivi che fine farà?
“Cambierà. La gente vuole veder cucinare e poi gustare sapori veri. Torneremo alle origini  e anche la parabola della cucina in televisione finirà”.
Quale piatto vorresti preparare in Tv per condividerlo con tutto il pubblico?
“La guancia di manzo cotta nel Chianti col brasato di verdure. Ma nel programma in televisione non si può fare, perché ci vogliono due giorni per prepararla e 4 ore di cottura”.

Un tempo televisivo davvero impossibile. Anche per il più fortunato dei programmi di cucina. 🙂

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Cipolle viola con capperi, what else?

Ho più volte espresso la mia incondizionata stima per la bontà delle cipolle. Bianche, rosse, dolci, piccanti. Non ho mai fatto una maglietta con la scritta “Cipolle forever” perché davvero sarebbe oltre i limiti del kitsch, ma certi giorni mi capita di riprendere in considerazione l’ipotesi, giusto perché le cipolle non le loderò mai abbastanza.

E anche perché, ogni tanto, senza fare grossi danni, si può pure esagerare un po’.

Cipolle viola con lampredotto, capperi e verdure miste

Ma tornando alle amate cipolle, voglio condividere una recente scoperta che mi ha appagato come gourmet e ispirato come dilettante ai fornelli. Ho avuto la fortuna di assaggiare le cipolle viola (dolci con una punta di piccante) con capperi dello chef Fabrizio Mazzantini. Una deliziosa rivelazione. Il gusto di queste cipolle si sposa con i formaggi, i classici tipo bolliti e salumi affettati, altre verdure magari dal carattere meno pronunciato. Il sistema migliore per trovare un abbinamento per me rimane sempre assaggiare e poi seguire l’istinto, consapevoli che ciò che piace a noi non necessariamente piacerà anche agli altri.

Chef Fabrizio Mazzantini, della Macelleria bistrot Pantano a Viareggio

Le cipolle viola di chef Mazzantini (confezionate in barattolo da asporto) sono il frutto di una preparazione meticolosa che ne esalta le caratteristiche naturali. Una volta pulite, passano in una bagna di aceto di Champagne con una percentuale di aceto di lampone austriaco (rispettivamente 9 e 7 per cento di acidità, dove il secondo serve a dare morbidezza e contrastare l’acidità del primo) per una settimana e vengono portate fino a ebollizione naturale quindi abbattute a più 4°. Uno choc termico che serve a mantenerne la croccantezza. Dopo l’abbattimento, fanno un’altra settimana nella bagna di aceti quindi vengono scolate e messe in barattolo con olio di semi e pastorizzate. Si lasciano a maturare per tre settimane e poi si possono mangiare. Si conservano a lungo, ma una volta aperte finiscono subito: sono troppo buone.

Giusto per strafare un po’, le ho unite al lampredotto, sempre prodotto dallo chef Fabrizio Mazzantini – le sue squisitezze le trovate a Viareggio, alla Macelleria Pantano – . Un’autentica gioia per il palato.

Ma quella del lampredotto, che sia da solo, con cipolle, salsa verde, peperoncino o tartufo, è un’altra storia 🙂


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Muffin alla carota per il “Ringraziamento”

Dire che nel 2020 non c’è nulla di cui essere grati sarebbe davvero facile. E difficilmente si potrebbero avere smentite clamorose sostenendo questa tesi. Lascio a ognuno di fare il proprio bilancio personale e non vi tedierò con i contenuti del mio (fra alti e bassi, ho comunque un paio di cose di cui essere grata, ma non le elencherò), ma mi piace l’idea di poter dire che almeno al capitolo “cosa succede nel mondo della cucina” qualcosa di buono l’ho scoperto e sono felice di averlo fatto. Questi muffin alla carota vengono da lì. La ricetta è semplice e il risultato versatile perché se aggiungete lo zucchero – che nell’originale non è previsto – virano decisamente sul versante “dolcetti da colazione-merenda-té delle 5 p.m. – se invece li lasciate nature, potete accompagnarli anche con un’ardimentosa versione sapida, tipo fettine di pesce spada affumicato, di prosciutto dolce, verdure in agrodolce e via osando.

Intanto la ricetta, poi vi racconto dove l’ho presa.

INGREDIENTI: 150 grammi di farina integrale di farro, 1 dl di bevanda di riso integrale non dolcificata, 2 uova bio, 150 grammi di carote crude, 0,5 dl di olio di mais (meglio se spremuto a freddo), 1 bustina di lievito per dolci, 2 cucchiai di uvetta, 100 grammi di mirtilli e una presa di sale.

Passate al setaccio e mescolate tutta la parte secca, quindi farina, lievito e sale. Frullate con il minipimer le carote sbucciate e grattugiate insieme all’olio e poi aggiungete le uova sbattute e la bevanda di riso quindi unite il tutto alla farina e mescolate fino a ottenere un composto omogeneo a cui aggiungerete in ultimo la metà dei mirtilli e tutta l’uvetta. Distribuite negli stampi per muffin e riempiteli per due terzi, aggiungete ora i mirtilli rimasti e mettete in formo preriscaldato a 180 ° per 25-30 minuti. Servite tiepido, accostando ai muffin dolce o salato a seconda delle vostre preferenze o di quanto vi sentite pronti a osare in termini di accostamenti. Io non avevo mirtilli a disposizione e, su consiglio disinteressato della mia creatura, ho aggiunto gocce di cioccolato e banana a rondelle all’impasto nella fase finale. Suggerimento tradizionale e azzeccatissimo, direi.

E adesso il mio ringraziamento. A “Cook”, magnifico supplemento del Corriere della Sera dove ho trovato la ricetta di muffin alle carote e che è fonte di ispirazione imbattibile, dalla padella allo scaffale della libreria, quando si parla di cucina.

Ad Alice Waters, che ho ri-trovato su Instagram e che con i suoi post da “Chez Panisse” mi dà la certezza che il mondo continua a girare nella giusta direzione almeno quando si tratta di cucinare e fare alta ristorazione.

A Yotam Ottolenghi, per aver reso ‘Simple’ e gustosa la mia personale ricerca su cibi di profonda tradizione mediterranea ma con un twist moderno e, soprattutto, per essermi guida nella mia spericolata sperimentazione nel caleidoscopico mondo delle spezie.

Alla mia famiglia, che sperimenta con me tutto quello che cucino e non si lamenta mai. Al massimo si limita a esortarmi a correggere il tiro con una frase che è anima e cuore della diplomazia alla toscana: “Questa cosa che hai cucinato è buona, ma non la rifare più”.


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Pappardelle al sugo di lampredotto

Non vi sembrano buonissime? Lo erano…

Chi non ama frattaglie e affini non potrà mai apprezzare fino in fondo il gusto di questo piatto, semplicissimo, ‘povero’, ma pieno di sapore. Il lampredotto credo sia consumato solo in Toscana e il panino col lampredotto, da mangiarsi rigorosamente in piedi per strada, è un classico quasi quanto una visita in piazza Duomo a Firenze. Quasi. Comunque le varianti che consente di realizzare se si ha la pazienza richiesta per cucinarlo sono interessanti. A me il lampredotto piace più o meno in ogni versione (gli ho dedicato anche un capitolo nel mio libro!) e ultimamente sperimento molto sul tema, perché ho promesso una “cena col lampredotto” a un carissimo amico appassionato del cibo in question almeno quanto me.

L’idea di questo sugo per accompagnare pappardelle a sfoglia ruvida, la migliore per raccogliere il sapore del condimento, mi è venuta da un’immagine che ha usato Fabrizio Mazzantini, genio creativo della Macelleria Pantano a Viareggio e vero mago nel preparare la carne. Ogni tipo di carne, lampredotto incluso. Qualche giorno fa ha postato su Instagram le foto del ‘suo’ lampredotto, mentre lo preparava per metterlo in barattolo e accennava i vari passaggi necessari per ottenere il meglio da questa carne. E allora ho provato anche io. Ammetto che non è stato semplicissimo, anzi, per me che non sono un’esperta norcina è stato piuttosto laborioso, ma alla fine il risultata mi ha ripagato.

Ho ottenuto un lampredotto cotto come si deve, dalla consistenza morbida e gustosa che ho unito a una base per il sugo fatta con cipolla, aglio, olio nuovo, peperoncino e un cucchiaino di curry dolce. Ho cotto le pappardelle e le ho scolate un pochino al dente, quindi le ho passate in padella col sugo di lampredotto. E sono piaciute a tutti. Mi sa che potrei utilizzare questa variante per la famosa cena… 🙂


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Olive alla “harissa”

NON avevo cognizione di cosa fosse il condimento che in Medio Oriente chiamano “Harissa” finché non sono inciampata (letteralmente visto che ho pestato l’allegato del Corriere della Sera che conteneva un articolo su di lui) in Yotam Ottolenghi. E da quel giorno, più o meno un mese fa, trovo notizie che lo riguardano ovunque. E’ persino diventato uno dei coach di Masterclass e la sua faccia simpatica e rilassata (è un’impressione solo mia o i cuochi tendono all’ansioso?!) mi saluta a intervalli regolari nei feed di Instagram e persino nella mail. La motivazione più plausibile di questa sovraesposizione è che è uscito da poco il suo ultimo libro, Flavour (che non ho comprato né letto, ma potrei farci un pensierino, le immagini pubblicate in rete dei piatti e delle ricette sono stupende) ma non avendo mai letto niente di suo ho deciso di partire con qualcosa di più facile e, per essere coerente con la scelta, ho comprato Simple.

E ho fatto bene. Questo volume che ha in copertina il disegno di un limone (e basta!) è un inno alle spezie e al loro uso quali catalizzatori del sapore. Una filosofia che semplificata recita più o meno così: aggiungendo le giuste combinazioni di spezie ed erbe aromatiche e anche il riso al vapore diventa un super piatto per sapore, profumo e nutrienti.

Spigolando fra le molteplici e coloratissime proposte di Ottolenghi, ho finito per optare per la “harissa” per la mia prima sperimentazione. Si tratta, per chi come me non ne aveva mai sentito parlare figuriamoci assaggiarla, di un mix di peperoncini secchi, olio d’oliva evo, semi di cumino, aglio e limone. Ottolenghi aggiunge alla sua “Rose harissa” anche petali di rose essiccati e acqua di rose per mitigare gli effetti dirompenti di peperoncino e aglio. Difficile da trovare in gastronomia, si può fare a casa abbastanza facilmente – le ricette, a parte quella di Ottolenghi, su Internet si sprecano e appena ho i petali di rosa del giardino essiccati la faccio anche io! – ma se, come me, non siete proprio integralisti, ce n’è una versione in polvere al supermercato che non è sicuramente buona come quella fresca, ma che per condire un esperimento va bene. Anzi, visti i risultati direi benissimo

Le mie olive alla “Harissa”

Ecco come sono nate queste olive alla “Harissa”.

Le olive che ho usato sono quelle tipiche toscane (chissà come mai ?!!!), raccolte dai miei vicini di casa e gentilmente concesse per le mie sperimentazioni. Le ho lavate e poi tenute a bagno in una soluzione salina per 36 ore perché perdessero l’amaro. Quindi le ho messe nell’essiccatore per 24 ore a 60 gradi. Se non avete l’essiccatore, potete usare il forno, è lo stesso. Una volta essiccate, le ho condite con poco olio evo e il mix di polvere “Harissa” a cui ho aggiunto anche un po’ di peperoncino appena essiccato. Quindi le ho messe nei barattoli e lasciate riposare per qualche giorno.

Sono squisite. Stuzzicanti e dal sapore fresco e piccante. Ottime con formaggi semi stagionati o il pane integrale con pomodorini, con la feta a dadini nell’insalata o in accompagnamento a carni poco saporite.

Insomma, un passe-partout dall’aperitivo al contorno.

La salsa harissa vera? Appena le rose appassiscono 🙂